Per introdurre il valore di questo ulteriore percorso, proposto quale itinerario formativo per i nostri studenti, ci è sembrato interessante proporre di seguito un lungo ed illuminante articolo del giornalista Aldo Cazzullo, per il Corriere della Sera, che dà il senso delle ragioni che per le quali è significativo scegliere anche un cammino che parta da Trieste, per introdurre con i nostri alunni una riflessione complessiva sui drammi del ‘900 delle guerre, ma anche delle prospettive che si aprono con il superamento dei conflitti e dei confini tra gli odierni 28 Stati dell’Unione.
Trieste, la bella «dimenticata». Crocevia di tre mondi, al confine tra Mediterraneo e Mitteleuropa, punta sulla scienza per tornare importante ed è oggi al centro della riflessione degli intellettuali sul significato ed il valore della sua storia e del suo presente, nel centesimo anniversario della Grande Guerra, che l’ha vista al centro del dramma del confine orientale italiano. Siamo tutti in debito con Trieste. Conquistata al prezzo di 650 mila vite, perduta nel disastro della guerra e dell’esodo istriano, ripresa dopo 18 mesi di crimini nazisti, 40 giorni di massacri titini e nove anni di occupazione angloamericana, e poi dimenticata. Trieste che ha dato all’Italia Saba e Svevo, Strehler e Magris, Kezich e Dorfles, Trieste crocevia di tre mondi, latino tedesco slavo, Trieste la città più settentrionale del Mediterraneo e più meridionale della Mitteleuropa; eppure Trieste è in un angolo, anche oggi che a cinque chilometri non c’è più il comunismo ma l’Europa di domani, non la cortina di ferro ma l’Est entrato nella sfera d’influenza tedesca. Di questa opportunità, il Paese non si è accorto: alla sua unica grande città di confine l’Italia volge le spalle; l’Italia finisce a Mestre.
A Mestre – signori, si scende – la ferrovia rallenta, ferma in ogni stazione, si inerpica in salita, passa su viadotti ottocenteschi. Eppure si è scelto di non costruire la linea ad Alta velocità insieme con la terza corsia dell’autostrada; prima o poi bisognerà farla, ma a costi doppi. Un secolo fa, da Trieste partivano treni diretti per Fiume, Lubiana, Ragusa, Mostar, Belgrado, Budapest; ora (anche a causa dei ritardi sloveni) non si va più neppure a Vienna. In vagone letto si arrivava a Belgrado e a Parigi; ora si va solo a Lecce. Per Roma bisogna cambiare: «Ci si mette più tempo ad andare in treno da Trieste a Roma che in aereo da Roma a New York» ha scritto Giovanna Botteri sul Piccolo, che sta raccogliendo le testimonianze di triestini indignati (il giorno prima c’era la testimonianza di Margherita Hack, orgogliosa toscana che pure ha lavorato qui dal ‘64: «A Mestre si perde sempre la coincidenza, non ci aspettano mai…».
L’antico porto dell’Impero adesso è più piccolo di quello di Capodistria. L’Adriatico davanti a Trieste pare un lago, a occhio nudo si vedono le sponde slovene e quelle croate, potrebbe diventare un mare urbano, una piazza d’acqua solcata dalle navi. Ma il traffico passeggeri langue, non si trova l’accordo. Il porto vecchio voluto da Maria Teresa è in rovina. Le Generali volevano farne la sede delle attività italiane; il Comune si oppose, le Generali si spostarono a Mogliano Veneto (a Trieste resta la sede della holding internazionale, oltre a decine di insegne sui palazzi più belli, come un marchio sulla città). Poi si è fatta avanti la Evergreen, colosso cinese, che però avrebbe abbattuto i magazzini storici; altro rifiuto, stavolta giustificato. Ora dovrebbero finalmente cominciare i lavori per restituire il mare alla città, com’è accaduto a Genova, e spostare le ultime attività nel porto nuovo, che boccheggia chiuso com’è dalla ferriera, in mano ai russi, e poco più in là dalla Grandi Motori, comprata dai finlandesi.
Trieste ha poco di Nord Est, e meno ancora di italiano. Non è città di piccoli imprenditori ma di mercanti cosmopoliti: sette cimiteri – cattolico, ebraico, islamico, greco-ortodosso, serbo-ortodosso, evangelico, più quello militare con tombe di ogni religione – e neppure un ghetto. Ci sono chiese luterane, valdesi, metodiste, anglicane, oltre a una sinagoga tra le più grandi d’Europa e una chiesa ortodossa di commovente bellezza, San Spiridione, con le cupole e l’iconostasi dorata come al Cremlino. Cose che esistono solo qui: i buffet dove servono le carni affumicate con il kren, i ricreatori – oratori laici per i ragazzi, aperti dai tempi degli Asburgo-i caffè che servirono la Sachertorte a Joyce e a Rilke: perché, spiega Claudio Magris, «quando una città non sa dov’è, di chi è, che cos’è, allora si affida alla letteratura».
Magris sorride del revival austriacante. Il sindaco si è portato a Vienna a incontrare il borgomastro: il 2014, anniversario della Grande Guerra scatenata dall’Austria, sarà celebrato a Trieste con mostre e concerti in memoria della buona amministrazione asburgica; ma non è nostalgia per cose passate, è solo un modo per ricordare all’Italia che Trieste esiste.
Certo, arrivando da Roma o da Milano, pare quasi di essere in un altro Paese. Di solito in Italia si dice sempre di sì, e poi non si fa nulla. I triestini dicono sempre di no – «No se pol!» -, e poi fanno tutto. Si può andare in Slovenia con l’auto noleggiata? «No se pol, ci vogliono le catene!»; in realtà le catene sono già a bordo. Avete una cartina? «No, sono finite!»; ma a bordo ci sono anche le cartine. Un minaccioso cartello avverte che «se il veicolo sarà restituito particolarmente sporco saranno addebitati euro 71 di lavaggio». Per avere un antibiotico senza ricetta si viene – giustamente – rimproverati da quattro farmacisti prima di essere accontentati dal quinto. Di solito alla vista di una telecamera gli italiani si fiondano facendo ampi gesti di saluto; i triestini cambiano marciapiede, «grazie ma preferirei non comparire». Le macchine si fermano sulle strisce e non parcheggiano (quasi mai) in doppia la. Si trovano i taxi. Le pizzerie invece sono rare, più facile trovare la porcina con i crauti che una margherita.
La Bella Addormentata, come qualche triestino chiama la sua piccola patria, si sveglia con il buio. La città ha angoli meta fisici ed episodi surreali: d’un tratto si sente un coro notturno, una canzone goliardica, un suono di campane, che battono implacabili tutte le ore, anche le tre del mattino. Mai visti tanti autovelox e tanta polizia, anche la sera, in una città italiana. La settimana scorsa poi c’erano in giro un sacco di scozzesi in kilt: tifosi dell’Aberdeen.
Si giocava in Slovenia ma loro sono scesi in albergo qui, dopo aver letto la classifica della Lonely Planet che colloca Trieste in testa tra le città belle e poco conosciute (Aberdeen è quinta). I giovani triestini, che raccontano di sentirsi talora allo stretto, quasi al con no, fanno il percorso inverso e vanno a Lubiana, che per bellezza non regge il confronto con la loro città ma è pur sempre una capitale. Si pagano 15 euro per la «vignetta», il pedaggio autostradale, e si risparmia il 30% sulla benzina, la metà sul dentista, due terzi sui centri benessere. Chi ha soldi da gettare punta invece verso la costa, su Portorose e i suoi casinò; oppure porta qui la barca, per sfuggire alle tasse.
Le terre slave fino a qualche anno fa suscitavano ancora diffidenza, se non odio e timore. Spiega Magris che nel giro delle generazioni si sono sciolte rivalità ataviche, superati rancori di guerre e occupazioni: «Fra i miei studenti, ad esempio, il problema non esiste. La celebrazione – voluta da un sindaco di centrodestra, Roberto Dipiazza – di Boris Pahor quale nostro scrittore, scrittore di tutta la nostra Trieste, avvenuta nel Teatro Verdi, simbolo del patriottismo italiano, è stata significativa. Non si tratta di scordare i morti né le violenze, ma di non usarli per riattizzare odi». Sono ancora pieni di dolore e rabbia, però, i familiari delle vittime. Raccontano l’angoscia di bambini che videro uscire di casa il padre senza mai vederlo tornare, senza sapere dove fosse finito, senza avere un corpo da seppellire, una tomba su cui piangere. Andiamo a Basovizza con Paolo Sardos Albertini, presidente del comitato onoranze caduti delle foibe, e con Anna Maria Muiesan Gaspàri, l’autrice della poesia incisa accanto al pozzo, storia di sua madre che va alla ricerca del marito nei campi di prigionia con una foto in mano, «co’ tuti i so recordi/che i xe deventadi mii». C’è anche Nicolò Molea, l’uomo che ha passato la vita a chie- dere una lapide con l’elenco dei nanzieri assassinati, e dieci anni per far correggere il nome di suo padre: maresciallo Domenico Molea, non Moleo, come avevano scritto. I primi a sparire erano stati i poliziotti: gli uomini di Tito andarono a prenderli il primo maggio, appena entrati a Trieste. Poi toccò a chiunque portasse una divisa, pure ai bidelli. Quindi agli impiegati comunali e anche ai capi antifascisti contrari all’annessione alla Jugoslavia.
Basovizza non è una foiba ma un pozzo, scavato da un minatore che cercava la bauxite, la leggenda dice che non avendola trovata si sia gettato dentro. Quanti corpi ci siano con il suo, non si saprà mai. Gli inglesi occupanti provarono a recuperarli con l’argano, ma rinunciarono quando s’imbatterono in granate inesplose e – raccontano i vecchi triestini – nella carcassa di un cane nero, che i titini gettavano insieme con gli odiati italiani per dannarne l’anima per l’eternità. I morti di Basovizza si calcolano a cubatura: siccome la fossa è piena per 500 metri cubi, e in un metro cubo ci stanno quattro corpi fracassati, i morti dovrebbero essere duemila. Qui vicino, nel bosco, c’è invece una foiba vera, la Plutone, con la bocca spalancata come la porta dell’Ade. Non ci si può avvicinare, il terreno sdrucciolevole ti trascina dentro. A gettare un sasso, lo si sente risuonare a lungo, prima di toccare il fondo.
La cosa che più indigna i familiari delle vittime è far notare che prima delle foibe ci furono la politica antislava del fascismo e l’occupazione della Jugoslavia. È l’obiezione che si sentono fare sempre. Sempre replicano che gli Italiani del con ne orientale non erano più o meno fascisti dei connazionali, ma hanno pagato il prezzo più alto. Negli stessi giorni del maggio 1945 cominciava l’esodo di 300 mila istriani, sistemati a Trieste in 109 campi profughi, compreso quello allestito nella Risiera di San Sabba. Un nome insolito – uno stabilimento per la lavorazione del riso, un santo sconosciuto – per indicare l’unico lager tedesco in territorio italiano dotato di forno crematorio, che bruciò i corpi di 2 o 3 mila antinazisti. La Risiera era un lager di città, accanto c’era già lo stadio, oggi intitolato a un altro grande triestino, Nereo Rocco.
I profughi di Pola – su 34 mila abitanti partirono in 30 mila, portandosi dietro la bara di Nazario Sauro – e di Fiume, sfuggiti al comunismo e alla vendetta titina, si trovarono distesi sulle stesse panche che due anni prima avevano accolto i settecento ebrei triestini, in viaggio verso Auschwitz: tornarono in venti. Racconta Magris che quando, dopo il liceo, andò a Torino per l’Università, tutto gli appariva più semplice e chiaro: i giusti e gli ingiusti, i perseguitati e i persecutori. A Trieste era diverso: tutti contro tutti; si era diviso persino il CLN. Non è vero, dice Magris, che delle foibe non si è mai parlato, lui stesso ne scrisse sul Corriere , con cui collabora dal ‘67; «ma non importava nulla a nessuno. Non serviva politicamente. E la città aveva rimosso anche la Risiera, capitava che il boia Lerch si facesse rivedere a Trieste, accolto da famiglie perbene». Ora è cambiato tutto, Basovizza e la Risiera sono monumenti visitati da decine di migliaia di studenti, e Roberto Menia – anima della destra, figlio di una profuga istriana – che da capo del Fronte della Gioventù si scontrava con la Fgci guidata proprio da Cosolini, ora si ritrova con il sindaco a sostenere il governo, cercando di portare qualcosa in città.
Dice Magris che il futuro di Trieste è legato al polo della scienza, in particolare alla Sissa, Scuola internazionale di studi superiori avanzati, dove lo scrittore ha tenuto per quattro anni un corso sui rapporti tra le due culture, l’umanistica e la scientifica. È d’accordo Riccardo Illy, per otto anni sindaco della città, per cinque presidente della Regione, ora tornato in azienda. Trieste ha un’antica storia di contaminazioni tra i saperi, la psicanalisi e la medicina, la letteratura e la fisica. Qui venne Franco Basaglia a rivoluzionare la psichiatria italiana, i padiglioni ottocenteschi del vecchio manicomio – per «tranquilli», «semiagitati», «agitati» – oggi ospitano asili nido e istituti universitari. Qui sul Carso Rubbia impiantò il sincrotrone che fotografa le molecole e poi ha vinto il Nobel per la Fisica; ora hanno inventato anche il laser a elettroni liberi che fissa le immagini in movimento, si potranno vedere eventi infinitamente piccoli, come le molecole di un antibiotico che aggrediscono i batteri.
Oggi in città ci sono settemila ricercatori, non estranei al primato dell’Università – la prima italiana nella World Top Universities – e alla nascita di piccole imprese ad alto tasso tecnologico, come la Ital Tbs, ramo software medicali, e la Kropf, che fa i test per la celiachia. Illy coltiva invece un altro ramo dell’eccellenza triestina: il caffè, il tè, il cioccolato, le confetture e altre delikatessen di una città golosa. Suo nonno paterno, ungherese di Timisoara (oggi in Romania, allora nell’Impero), sposò una donna metà irlandese metà tedesca; i nonni materni erano istriani, lui di Pola lei di Rovigno. Ora Riccardo Illy e suo fratello Andrea hanno aperto nel mondo 230 caffè con il loro marchio, per combattere sia pure in ritardo il fenomeno mortificante delle catene internazionali che offrono menu in italiano – ristretto, macchiato, cappuccino – ma non sono italiane.
È il destino di Trieste, esportare idee e uomini. Quando vi sbarcò l’Audace, il 3 novembre 1918,
i triestini erano 230 mila; ora sono 25 mila in meno. La città contende a Bolzano il primato nelle classi che di qualità della vita, e a Genova quello della città più anziana d’Italia. Sono sopra la media nazionale sia i depositi bancari sia, in teoria, i reati: ma questo perché i reati qui vengono denunciati tutti. Sarebbe sbagliato però presentarla come una città asburgica, il tratto latino e mediterraneo alla lunga prevale, persino la bora – che a febbraio scorso ha imperversato con raffiche a 168 chilometri l’ora – cede il posto ai venti del Sud: in un secolo la frequenza della bora e in genere dei venti orientali è diminuita di 28 giorni l’anno, quella dello scirocco e dei venti meridionali è aumentata di 18 giorni.
Trieste insomma è nostra, appartiene più che mai all’Italia, e l’Italia le appartiene; anche se spesso se ne dimentica. Invece dobbiamo sempre ricordare il «barbaro sognante» Slataper e il genio suicida Michelstaedter, il passaggio di Tommaseo e quello di Tomizza; gli irredentisti impiccati dagli austriaci e i duemila volontari che disertarono dall’esercito imperiale per combattere accanto agli altri Italiani; i triestini perseguitati dai nazisti e quelli infoibati dai comunisti, e anche i sei ragazzi uccisi dagli inglesi nel ‘53 mentre manifestavano per il ritorno della città all’Italia; il più giovane, Piero Addobbati, aveva solo 14 anni. Per tutto questo, e per molto altro ancora, dobbiamo sempre ricordarci di Trieste.
Arrivo in bus (o treno o con volo Alitalia, a seconda delle necessità delle scuole) a Trieste e subito in direzione Fogliano, appena fuori città, per la visita guidata al Sacrario di Redipuglia, al suo Museo ed al vicino cimitero dei caduti dell’Impero austro-ungarico, proprio per rendere omaggio alle centinaia di migliaia di giovani che sacrificarono la loro vita su quel confine durante la Grande Guerra.
Sacrario di Redipuglia: Inaugurato nel 1938, costruito su progetto dell’architetto Greppi e dello scultore Castiglioni questo Sacrario custodisce le spoglie di 100.187 caduti della Grande Guerra (1915-1918), circa 40.000 identificati e 60.000 Caduti Ignoti. E’ stato edificato alle pendici del monte Sei Busi e si presenta come uno schieramento militare con alla base la tomba del Duca d’Aosta. Il grande mausoleo venne realizzato di fronte al primo cimitero di guerra della 3° Armata sul Colle Sant’Elia che oggi è una sorta di museo all’aperto noto come Parco della Rimembranza, lungo il viale adornato da alti cipressi, segnano il cammino cippi in pietra con riproduzioni di cimeli ed epigrafiche adornavano le tombe del primo sacrario. Sulla cima del colle un’incisione su un frammento di colonna romana, proveniente dagli scavi di Aquileia celebra la memoria di tutti i caduti “senza distinzioni di tempi e di fortune”.
Cimitero austro-ungarico: Costruito ad un chilometro circa dal Sacrario di Redipuglia, in direzione Fogliano raccoglie le salme di 14.550 soldati austro-ungheresi caduti durante la Grande Guerra, provenienti dai vari cimiteri di guerra dimessi. Nel Camposanto un viale, delimitato da alti cipressi, conduce alla grande tomba comune dove riposano 7.000 soldati ignoti. I 2.550 soldati noti, sepolti ai lati del viale vengono ricordati con dei piccoli cippi di cemento sui quali vi è posizionata la lapide con le generalità. Sempre alla destra e alla sinistra del viale, più specificatamente ai piedi delle mura di cinta, sono state costruite altre due tombe comuni ognuno delle quali raccoglie i resti di altri 2.500 caduti ignoti. Si prosegue, sempre in bus, per un’altra destinazione ai margini della città di Trieste, che ricorda invece la tragedia degli eccidi commessi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e no alla ne del II conflitto mondiale, e oltre…
Foiba di Basovizza: Dichiarata monumento nazionale nel 1992, da poco restaurata e fornita di un attiguo nuovissimi Centro di documentazione, rappresenta non solo l’altare sacri cale di tanti innocenti, ma rappresenta il simbolo dei drammi che hanno segnato le vicende del confine orientale al finire del secondo conflitto mondiale. Nel 2007 il sito è stato restaurato ed un monumento è stato posto a ricordo delle oltre 2000 vittime ipotizzate, scomparse nel maggio-giugno 1945, durante l’occupazione jugoslava della Venezia Giulia, in parte a Basovizza e in parte nelle foibe circostanti (foiba di Monrupino, abisso Plutone – Gropada). A commento di questa tappa è stato scelto un verso della preghiera per i martiri delle foibe, incisa sulla pietra nei pressi del monumento, preghiera composta da Antonio Santin, eroico vescovo di Trieste, figura da conoscere ed onorare, strenuo oppositore con identica determinazione delle violenze dei nazifascisti e dei partigiani titini. “Questo calvario … indica nella giustizia e nell’amore le vie della pace”.
Centro Raccolta Profughi di Padriciano: Il CRP di Padriciano si trova nell’entroterra triestino tra Opicina e Basovizza. Progettato come campo per le forze armate anglo – americane, dal 1948 al 1976 fu utilizzato per dare rifugio agli esuli italiani provenienti dai territori istriani e dalmati ceduti dall’Italia alla Jugoslavia. Infatti, fu proprio attraverso la trasformazione di vecchi campi per internati e prigionieri di guerra, caserme, scuole, in centri di accoglienza che l’Italia rispose all’emergenza rappresentata dai circa 350.000 esuli. Dal 2004 Padriciano è sede della Mostra permanente “Centro Raccolta Profughi. Per una storia dei campi profughi istriani, umani e dalmati in Italia” allestita dall’Unione degli Istriani.
Visita guidata della città: dalla collina con la basilica di S. Giusto scendendo no al cuore della città, per raggiungere l’affascinante ed enorme piazza dell’Unità d’Italia passando per i caffè storici della città in cui si ritrovarono grandi patrioti e grandi letterati.
Faro della Vittoria: Opera dell’architetto triestino Arduino Berlam e dello scultore Giovanni Mayer, il bianco “Faro della Vittoria” illumina il Golfo di Trieste ed al contempo funge da monumento commemorativo dei caduti in mare durante il I conflitto mondiale come testimonia l’iscrizione “Splendi e ricorda i caduti sul mare”. L’idea di costruire un faro nacque nel 1918: esso, immaginato altissimo, doveva dapprima collocarsi su Punta Salvore. Soltanto in seguito la Lega Navale ed il Comando della Difesa Marittima preferirono l’attuale collocazione, sul Poggio di Gretta, a 60 m sul livello del mare, in corrispondenza del bastione rotondo dell’ex forte austriaco kressich (1854-1857). Il progetto presentato dal Berlam fu approvato il 20 gennaio 1920. I lavori iniziarono nel febbraio 1923 e si conclusero il 24 maggio 1927, con una cerimonia di inaugurazione a cui prese parte l’allora Re d’Italia Vittorio Emanuele III. Il faro è costituito da un ampio basamento comprendente anche il bastione del preesistente forte austriaco ed è ricoperto di pietre di origine locale.
Il rivestimento in pietra d’Istria, il cui spessore varia dai 60 agli 80 cm, venne posto in opera simultaneamente alle calate di calcestruzzo e, durante l’esecuzione, si fece spesso uso di modelli in gesso, anche di singoli dettagli. Sopra la colonna monumentale vi è un “capitello” a sostegno della “coffa”, così chiamata in chiari termini marinareschi, in cui è inserita la lanterna, la cui gabbia è realizzata in bronzo e cristallo, coperta da una cupola in bronzo con decorazioni a squame. All’apice della cupola svetta la statua in rame della Vittoria. La parte ornamentale è completata dalla figura del marinaio sotto la quale venne collocata l’ancora del cacciatorpediniere Audace (la prima nave italiana che entrò nel porto di Trieste il 3 novembre 1918). Ai lati dell’ingresso al faro vi sono invece due proiettili, anch’essi dono del Ministero della Marina. Oggi il faro, nella sua modesta bellezza, rappresenta uno dei simboli della città.
La Cattedrale di San Giusto: Così come oggi la conosciamo, sorge sui resti di una basilica paleocristiana a tre navate, con il presbiterio absidato e il pavimento a mosaico, i cui scarsi resti sono stati poi incorporati nel pavimento dell’attuale costruzione. Nel corso dei secoli la primitiva basilica subì numerose e consistenti modi che fino alla sua completa distruzione, per motivi a noi ignoti. In seguito furono edificati due edifici sacri: una piccola cattedrale dedicata alla Vergine Assunta ed il sacello di San Giusto: delle tre navate dell’antica cattedrale rimane oggi soltanto la centrale in corrispondenza della quale vi sono due lari di colonne, del sacello rimane il mosaico raffigurante il Cristo, San Giusto e San Servolo e l’abside dedicata a Sant’Apollinare.
La navata centrale della Cattedrale odierna vede la luce nel Trecento, in seguito alla fusione dell’antica cattedrale e del sacello e le conseguenti modifiche. L’edificio è impreziosito da uno splendido rosone gotico, inserito nella pietra arenaria di cui sono fatti la facciata ed il campanile. L’interno presenta ancora oggi le caratteristiche di una basilica cristiana, a cinque navate. Le decorazioni interne ed il moderno mosaico della navata centrale sono di recente fattura.
Il castello di Miramare: il bianco castello da favola, circondato da un verde e lussureggiante parco, si affaccia su mare blu battuto dal vento: questa romantica descrizione ben si adatta alla residenza fatta costruire tra il 1856 ed il 1860 dall’arciduca Massimiliano d’Asburgo per la sua amata giovane sposa. Così, come Massimiliano aveva trovato rifugio dalla furia del mare in quello che diventerà poi il piccolo e graziosissimo approdo marittimo del castello, egli cercò di realizzare nello stesso posto un nido d’amore al riparo dalle insidie della vita. Ma la smania di potere e il desiderio di fama di Carlotta del Belgio spinsero l’arciduca a partire per il Messico, di cui diventerà sì imperatore ma dove perderà, dopo poco, la vita, sognando il suo amato castello così lontano e abbandonato. Si dice che Carlotta, dopo la morte del suo amato, abbia perso la ragione.
In questa vicenda trova fondamento la maledizione che graverebbe sul castello; si crede infatti che chi vi dimora perisca anzitempo di morte violenta. Pare che, nella storia, la maledizione si sia sempre fatalmente avverata. Oggi il castello ed il parco sono aperti ai visitatori, sempre molto numerosi. Mentre il castello attira principalmente i turisti, il parco è anche meta domenicale dei triestini che, passeggiando sui sentieri tra la lussureggiante vegetazione voluta da Massimiliano, trascorrono alcune ore all’aria aperta . All’interno del castello si possono visitare gli appartamenti privati, le stanze desinate agli ospiti, i vari saloni, la biblioteca-studio e la magnifica sala del trono, recentemente restaurata e riportata all’originario splendore. I sentieri del parco, sempre perfettamente conservati, permettono di passeggiare in un ambiente variegato e di notevole interesse botanico.
Tra le altre cose si segnalano, poco distanti dal cancello di ingresso al parco, le Scuderie, oggi divenute sede espositiva, il Castelletto e le numerose sculture che decorano spiazzi e vialetti. Il castello ed il parco ospitano, specie durante la bella stagione, numerose manifestazioni di carattere prevalentemente culturale. Il castello ed il parco, che ben valgono una visita, sono aperti tutti i giorni dell’anno. L’ingresso al Museo del Castello è a pagamento, quello al parco gratuito. Il luogo è facilmente raggiungibile anche in autobus con la linea 36 ed inoltre alcuni treni fermano anche alla piccola stazione storica di Miramare.
La Risiera di San Sabba: Il grande complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso – costruito nel 1913 nel periferico rione di San Sabba – venne dapprima utilizzato dall’occupatore nazista come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 (Stalag 339). Verso la ne di ottobre, esso venne strutturato come Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia), destinato sia allo smistamento dei deportati in Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei. Nel sotto-passaggio, il primo stanzone posto alla sinistra di chi entra era chiamato “cella della morte”. Qui venivano stipati i prigionieri
tradotti dalle carceri o catturati in rastrellamenti e destinati ad essere uccisi e cremati nel giro di poche ore.
Secondo testimonianze, spesso venivano a trovarsi assieme a cadaveri destinati alla cremazione. Proseguendo sempre sulla sinistra, si trovano, al pianterreno dell’edificio a tre piani in cui erano sistemati i laboratori di sartoria e calzoleria, dove venivano impiegati i prigionieri, nonché camerate per gli ufficiali e i militari delle SS, le 17 micro-celle in ciascuna delle quali venivano ristretti fino a sei prigionieri: tali celle erano riservate particolarmente ai partigiani, ai politici, agli ebrei, destinati all’esecuzione a distanza di giorni, talora settimane. Le due prime celle venivano usate a ni di tortura o di raccolta di materiale prelevato ai prigionieri: vi sono stati rinvenuti, fra l’altro, migliaia di documenti d’identità, sequestrati non solo ai detenuti e ai deportati, ma anche ai lavoratori inviati al lavoro coatto (tutti i documenti, prelevati dalle truppe jugoslave che per prime entrarono nella Risiera dopo la fuga dei tedeschi, furono trasferiti a Lubiana, dove sono attualmente conservati presso l’Archivio della Repubblica di Slovenia). Le porte e le pareti di queste anticamere della morte erano ricoperte di graffiti e scritte: l’occupazione dello stabilimento da parte delle truppe alleate, la successiva trasformazione in campo di raccolta di profughi, sia italiani che stranieri, l’umidità, la polvere, l’incuria – in definitiva – degli uomini hanno in gran parte fatto sparire graffiti e scritte. Ne restano a testimonianza i diari dello studioso e collezionista Diego de Henriquez (ora conservati dal Civico Museo di guerra per la pace a lui intitolato), ove se ne trova l’accurata trascrizione; alcune pagine sono riprodotte nel percorso della mostra storica. Nel successivo edificio a quattro piani venivano rinchiusi, in ampie camerate, gli ebrei e i prigionieri civili e militari destinati per lo più alla deportazione in Germania: uomini e donne di tutte le età e bambini anche di pochi mesi. Da qui finivano a Dachau, Auschwitz, Mauthausen, verso un tragico destino che solo pochi hanno potuto evitare. A favore di cittadini imprigionati nella Risiera – ed in particolare dei cosiddetti “misti” (ebrei coniugati con cattolici) – intervenne direttamente presso le autorità germaniche il vescovo di Trieste, mons. Santin, in alcuni casi con successo (liberazione di Giani Stuparich e famiglia), ma in altri senza alcun esito (Pia Rimini). Nel cortile interno, proprio di fronte alle celle, sull’area oggi contrassegnata dalla piastra metallica, c’era l’edificio destinato alle eliminazioni – la cui sagoma è ancora visibile sul fabbricato centrale – con il forno crematorio. L’impianto, al quale si accedeva scendendo una scala, era interrato. Una canale sotterraneo, il cui percorso è pure segnato dalla piastra d’acciaio, univa il forno alla ciminiera. Sull’impronta metallica della ciminiera sorge oggi una simbolica Pietà costituita da tre profilati metallici a segno della spirale di fumo che usciva dal camino. Dopo essersi serviti, nel periodo gennaio – marzo 1944, dell’impianto del preesistente essicatoio, i nazisti lo trasformarono in forno crematorio, in grado di incenerire un numero maggiore di cadaveri, secondo il progetto del’”esperto” Erwin Lambert, che già aveva costruito forni crematori in alcuni campi di sterminio nazisti in Polonia. Questa nuova struttura venne collaudata il 4 aprile 1944, con la cremazione di settanta cadaveri di ostaggi fucilati il giorno prima nel poligono di tiro di Opicina. L’edificio del forno crematorio e la connessa ciminiera vennero distrutti con la dinamite dai nazisti in fuga, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, per eliminare le prove dei loro crimini, secondo la prassi seguita in altri campi al momento del loro abbandono. Tra le macerie furono rinvenute ossa e ceneri umane raccolte in tre sacchi di carta, di quelli usati per il cemento. Tra le macerie, fu inoltre rivenuta la mazza la cui copia, realizzata e donata da Giuseppe Novelli nel 2000, è ora esposta nel Museo (l’originale è stato purtroppo trafugato nel 1981). Sul tipo di esecuzione in uso, le ipotesi sono diverse e probabilmente tutte fondate: gassazione in automezzi appositamente attrezzati, colpo di mazza alla nuca o fucilazione.
Pola: È una città croata di 57.765 abitanti (al censimento del 2011), la maggiore dell’Istria. Il monumento più importante è l’Arena (anfiteatro romano), che funge anche da simbolo per la città ed è tra gli an teatri antichi di età romana meglio conservati. Nella primavera 1945, dopo la ritirata dei tedeschi, Pola fu invasa dalle milizie partigiane jugoslave. Il Comitato Popolare di Liberazione (CPL) annunciò l’avvenuta annessione alla Jugoslavia. In questo periodo iniziarono delle vere e proprie persecuzioni nei confronti degli autoctoni italiani, favorendone l’esodo in massa. Il 6 giugno 1945, l’accordo Alexander-Tito assegnò Pola come exclave raggiungibile solo via mare all’interno della Zona A del Territorio libero di Trieste, di occupazione alleata, comprendente anche Gorizia, Trieste e Monfalcone. Il resto dell’Istria e Fiume furono
invece assegnati all’occupazione militare jugoslava. Il 12 giugno, anziché il 10 come previsto, gli alleati entrarono a Pola. La città attirò rifugiati italiani dal resto dell’Istria, rimasta sotto occupazione jugoslava. Rinacquero in città tutti i partiti, associazioni, sindacati italiani, già soffocati dal fascismo, e poi repressi dai nazisti e dai titini. Alla conferenza di Parigi, già nell’estate 1946 apparve chiaro che il compromesso avrebbe consegnato l’Istria e Pola alla Jugoslavia, Gorizia e Monfalcone all’Italia, mentre Trieste con una fascia di territorio limitrofo sarebbe divenuta Stato indipendente.
La popolazione a Pola restò incredula e divisa tra pessimisti, per i quali ormai tutto era perduto, e ottimisti, che non vedevano come, dopo due anni di tutela anglo-americana, la città potesse essere di nuovo abbandonata agli slavi. Il 26 luglio 1946 il CLN di Pola raccolse 9.496 dichiarazioni familiari scritte, per conto di complessivi 28.058 abitanti su un totale di circa 31.000, di voler abbandonare Pola qualora venisse assegnata alla Jugoslavia. Le firme del CLN di Pola furono citate da De Gasperi nel suo discorso al Palazzo di Lussemburgo a Parigi. Nell’inverno 1946-47, il CNL di Pola convinse il governo italiano ad inviare la motonave Toscana e altri sei motovelieri al giorno, per il trasporto delle masserizie della moltitudine in procinto di abbandonare la città. Altri venti vagoni ferroviari al giorno sarebbero partiti da Pola per l’Italia, attraversando tutto il territorio istriano già sotto occupazione jugoslava. Nacque l’ipotesi di far esodare una comunità di coltivatori a Fertilia, in Sardegna, e di ospitare i lavorati dell’arsenale al porto di Taranto.
Il 20 marzo 1947 il piroscafo Toscana compì il suo ultimo viaggio, accompagnando le ultime partenze. Come previsto 28.000 dei 31.000 abitanti di Pola abbandonarono beni e proprietà piuttosto che divenire jugoslavi. Intanto nelle case rimaste vuote si installarono rapidamente nuovi abitanti sfollati dall’interno della Jugoslavia. Per altri sei mesi, 1.000 “operatori indispensabili” restarono ancora nella città deserta, in attesa del 15 settembre 1947, entrata in vigore del trattato di pace, quando l’abitato doveva venir ceduto definitivamente alla Jugoslavia. Dal 1991, dopo la dissoluzione del regime jugoslavo, entrò a far parte della Repubblica croata. La situazione da allora è in gran parte migliorata, molte case e monumenti sono stati restaurati e negli ultimi tempi sono stati aperti nuovamente moderni caffè e negozi. L’ultimo censimento del 2001, basato sull’uso della lingua, segnala una popolazione totale di 58.594 abitanti e indica che la maggioranza è di lingua croata con l’88.38% della popolazione (51.785 ab.), seguono minoranze etniche come: 2.856 di lingua italiana (4.87%), 983 di lingua serba (1.68%), 593 di lingua slovena (1.1%), 475 di lingua bosniaca (0.81%) oltre a minoranze meno rilevanti Altre fonti, tuttavia, indicano un numero di Italiani di circa 5.850 persone, ossia il 10% della popolazione totale.
La Comunità degli Italiani di Pola, che ha sede in via Carrara, nel centro storico, è il punto di ritrovo per tutti gli Italiani del comune. La sede è stata purtroppo frequentemente e ripetutamente oggetto di vandalismi e tentativi di incendio, come lamentato in un’interpellanza parlamentare dal presidente dell’Unione Italiana, ed in alcuni casi, come a Parenzo e Rovigno, è stato bruciato il tricolore italiano. Anche gli esuli da Pola hanno continuato a ritrovarsi ed hanno costituito un’associazione denominata Libero Comune di Pola in Esilio con un proprio Sindaco ed un proprio Consiglio comunale eletti con voto assembleare.
Rovigno: È una città di 14.367 abitanti dell’Istria sud-occidentale, in Croazia. Sorge su una costa frastagliata e fronteggiata da scogli ed isolotti a sud del Canale di Leme, tra Parenzo e Pola. Dista in linea d’aria circa 105 km da Venezia, 65 km da Trieste, 125km da Marina di Ravenna e 155km dal Porto di Ancona. Il centro ha origini pre-romane. Assunse importanza sotto il dominio romano solo nei primi seco- li dell’Era volgare quando il suo nome era Arupinum o Mons Rubineus e successivamente anche Ruginium e Ruvinium, da cui poi si è giunti al nome attuale. Fu per secoli città, fra le più importanti d’Istria, appartenente alla Serenissima Repubblica di Venezia. Dopo la caduta di quest’ultima e la parentesi napoleonica, passò nelle mani dell’Impero Austro-Ungarico, a cui rimase sino la fine della Prima guerra mondiale. Appartenne all’Italia no al Trattato di Parigi del 1947, data in cui fu ceduta alla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Tale fatto, come nel resto dell’Istria, causò l’esodo della maggioranza della popolazione italiana autoctona.
In origine la penisola su cui sorge il centro cittadino era un’isola, separata dalla terraferma da un canale e cinta da una spessa muraglia e da torrioni: a ponente vi era la porta di san Damiano con il relativo torrione (ora la Torre dell’Orologio), a levante la porta di Valdibora con il suo torrione (divenuta nel XVIII secolo casa di proprietà della famiglia Bognolo) e nel mezzo il famoso Portone del Ponte, munito di ponte levatoio, sul quale campeggiava una lapide con la scritta Lo Reposso dei Deserti. Tale porta fu demolita ed il canale interrato nel 1763, per espandere l’antico abitato. Vi ha sede il Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, un’istituzione del Consiglio d’Europa. Storicamente gli abitanti di Rovigno hanno fatto parte della comunità linguistica italiana. Secondo l’ultimo censimento austriaco del 1911, il 97,8% della popolazione era di madrelingua italiana.
Basilica di Aquileia e Mosaici (Patrimonio dell’Umanità Unesco) La Basilica di Aquileia fu la cattedrale del Patriarcato di Aquileia, entità politico–religiosa esistita dal 568 al 1751 che amministrava un vastissimo territorio (comprese l’attuale Slovenia e Croazia) con al centro il Friuli. I mosaici, presenti sono in un perfetto stato di conservazione, sono eccezionali sia per ampiezza, che per completezza delle scene e interesse iconografico. All’inizio della navata sinistra, si può accedere alla Cripta degli Scavi dove sono visibili i resti della Basilica Paleocristiana.
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